L’organo

Nessuno di loro voleva andare a trovare Margherita, in Irlanda. 

Eppure sarebbero andati tutti. Come accadeva sempre nella loro famiglia, si faceva soltanto ciò che era necessario, mai ciò che si voleva, e andare a trovare Margherita in quel preciso momento storico era necessario.

Da anni Clara aveva ridotto al minimo i contatti con la sorella, costringendo il proprio marito e le loro due figlie, Perla e Ginevra, a limitarsi a scambi telefonici di auguri con “l’irlandese” ogni volta che il calendario lo imponeva.

«Non capisco per quale ragione io debba venire. La ricordo appena, la zia Margherita, avrò avuto due anni l’unica volta che l’ho vista. Stiamo parlando di 13 anni fa!» La voce di Ginevra era spenta, mentre osservava gli sbuffi di farina emersi dal proprio gesticolare. Era consapevole del fallimento insito nel dar voce ai propri pensieri, ma aveva parlato ugualmente. 

«É un affare di famiglia, è questa la ragione. E poi non intendo lasciarti da sola in casa, con la tua mania per la cucina sono sicura che troveremmo tutto carbonizzato. Non voglio più discuterne.» Clara si alzò, chiudendo il Macbook con cui aveva lavorato durante tutta la conversazione con la figlia e sulla soglia della porta aggiunse un’ultima cosa. «E smettila di perdere tempo, studia, renditi utile.»

Ginevra rimase immobile, con le efelidi di farina sulle gote rosate dal senso di inadeguatezza. Non era mai abbastanza per i propri genitori e non lo sarebbe stata mai, esistevano soltanto i successi di Perla, che a 18 anni vantava già un tour europeo di esibizioni musicali. Aveva iniziato a suonare l’organo quando era soltanto una bambina ed era ormai diventata una stella. Ginevra e Perla erano legatissime, ben lontane dalla bolla competitiva in cui i genitori cercavano di inserirle.

«La competizione e il duro lavoro spingono all’eccellenza.» Questa era solo una delle innumerevoli frasi deleterie che Clara ripeteva alle proprie figlie, ogni volta che la loro giovinezza le invogliava a vivere con spensieratezza senza preoccuparsi di chi sarebbero diventate da adulte.

«La nostra Perla» diceva Clara alle cene con i colleghi chirurghi quando entrava la primogenita, per poi aggiungere con tono dimesso «e Ginevra». Senza “la nostra”, solo una qualsiasi Ginevra.

In ogni guizzo entusiasta della seconda figlia Clara e il marito vedevano soltanto una perdita di tempo, un insulto al buon nome della famiglia. 

Ginevra aveva iniziato a sospettare che di non aver mai eccelso in nessun campo – ammesso che fosse possibile – perché ogni suo interesse era sempre stato bloccato sul nascere. Perla non era diventata una stella della musica in un giorno e neanche in un anno. Perché a lei, invece, non veniva dato lo stesso tempo per trovare la propria strada? Ma soprattutto, per quale motivo doveva necessariamente eccellere in qualcosa?

Il viaggio verso il villaggio di Doolin, nella Contea di Clare, fu lesionato da continue lamentele. Ogni parola di Clara era un’abrasione sulla tela colorata che scorreva oltre il finestrino dell’auto noleggiata. La brughiera irlandese, puntellata da vivaci tinte floreali, nel proprio su e giù collinare faceva vibrare Ginevra nel profondo come non le era mai successo. Per la madre, invece, quelle distese erbose erano mera campagna, testimonianza della famigerata mancanza di ambizione della sorella. 

Fu con l’ingresso ufficiale nel villaggio che Ginevra alzò definitivamente uno scudo contro la voce di Clara e si abbandonò alle meraviglie del luogo. 

Strade ondulate facevano da vetrina per cottage dalle facciate color pastello, con tetti in paglia intrecciata. Le finestre aperte sembravano rami fioriti e liberavano nell’aria le esalazioni delle cucine domestiche. Sullo sfondo, la torre di O’Brien svettava sulla scogliera, a ridosso dell’Atlantico, sguinzagliando mucche da pascolo sul manto erboso. 

Villaggio di Doolin. Immagine presa dal web.

Era un paradiso bucolico e Ginevra sentì le tensioni scivolare via, disperdersi nell’azzurro dell’oceano in lontananza.

«Sono felice che siate venuti a trovarmi, Clara. Ti trovo bene.» La voce della zia Margherita era serena, priva di filtri. La sorella non rispose alla dimostrazione di affetto e si limitò a sorridere con sforzo. 

«E voi, ragazze, siete due meraviglie. Wow, è vedendo voi che mi rendo conto di quanto tempo sia trascorso. Sono felice che finalmente avrete modo di conoscere vostro cugino, Harry.»

La casa di Margherita era a sua immagine e somiglianza. Fresca, rustica, colorata. Era tutto ciò che la loro casa di Milano non era.  E per Ginevra era soltanto un pregio.

Il cugino di 12 anni stava decorando alcuni manufatti in legno quando li vide. Il suo sorriso li trafisse come un treno in corsa, cozzando con l’estrema serietà della situazione e alleggerendo gli animi. Tutti tranne quelli di Clara.

Conoscevano tutti la ragione di quella visita e non aveva nulla a che fare con la nostalgia.

In quell’anno erano venuti a mancare due membri della famiglia: Pietro, il padre di Clara e Margherita, e Lucia, sua sorella. I due erano proprietari di un casale nelle campagne toscane, ormai abbandonato da diversi anni. Una metà della proprietà, quella appartenente a Lucia, era stata lasciata interamente all’ “irlandese”, per la gioia di Clara. La metà paterna era stata divisa tra le due figlie. Il dato oggettivo era che Margherita possedeva i 3/4 della tenuta e dunque da lei dipendevano le sorti del luogo.

Per il resto della giornata, tuttavia, tutti si abbandonarono a conversazioni di circostanza, come a voler attutire l’onda d’urto che inevitabilmente li avrebbe travolti nel giro di poche ore.

La conversazione virò rapidamente sui successi di Perla, sulle sue ambizioni e sul successo già ottenuto. Ginevra attendeva con rassegnazione il solito momento in cui l’interlocutore, annebbiato dalla luce della sorella maggiore, avrebbe posato lo sguardo su di lei chiedendole «E tu?». Ma questo non accadde. Era come se Margherita stesse aspettando che fosse Ginevra stessa a prendere parola. 

La ragazzina, dal canto proprio, non ne aveva la minima intenzione e si concentrò sul gigantesco forno a legna che svettava in cucina. Avvertì il profumo della zia accanto a sé, all’improvviso.

«Bello, eh? Non sarei mai sopravvissuta in Irlanda senza pizza.»

«É maestoso.» Ginevra ne sfiorò i contorni in pietra. «Mi insegneresti a farne una? Amo cucinare.»

Margherita si illuminò per la prima volta in quella giornata. 

«Mettiamoci subito a lavoro.»

Il silenzio non era mai stato così conciliante, pensò Ginevra. Imitava i gesti della zia, sentendosi a proprio agio di fronte a una persona che per la prima volta non si aspettava nulla da lei. E proprio per questa ragione, sentì che in quel momento avrebbe potuto sognare di essere chiunque.

«Quando posso, cerco sempre di cimentarmi in cucina, mi piace.»

«E puoi spesso?»

«No.» Il silenziò squarciò lo spazio che le separava, aprendo le porte di un disagio troppo privato.

Le ore trascorsero, nell’attesa che l’impasto lievitasse e così Margherita mostrò agli ospiti il tramonto su Doolin, un naturale nebulizzatore di emozioni intense chiaramente alle porte.

«Cosa fai nel tempo libero? Qualche sport?» Chiese Margherita a Perla. La voce invadente di Clara si materializzò nella conversazione.

«Non essere sciocca, i suoi piedi sono preziosi quanto le sue mani. Nell’organo la pedaliera è fondamentale tanto quanto la tastiera. Una semplice storta potrebbe decretare la fine della sua carriera.»

L’ “irlandese” decelerò, ricercando la compagnia di Ginevra. «Come si resiste alla tentazione di dire a tua madre che la sua Perla suona con i piedi?» Anche Perla sentì la frase della zia e scoppiò a ridere in sordina. 

Clara tornò accanto alla sorella. «Come riesci a vivere qui? Sei in mezzo al nulla, lontana dalla civiltà.»

Margherita inspirò a fondo prima di rispondere. «Quello che per te è nulla per me è tutto. É solo una questione di punti di vista.»

«O di aspirazioni. Non hai mai mirato in alto.»

«Vivo sulle scogliere di Moher che raggiungono i 220 m di altezza sull’Atlantico. Mi sembra abbastanza in alto.»

«Non giocare con le parole, Margherita, sai cosa voglio dire.»

«Lo so bene, Clara. Ma non mi è mai importato.»

«Cosa ti dà il vivere qui? La tua bottega da artigiana ti appaga a tal punto da averti fatto dimenticare tutte le altre occasioni che la vita poteva offrirti?»

«Adesso è meglio rientrare, l’impasto per le pizze sarà pronto.»

Fu una cena insostenibile, durante la quale Margherita dovette continuamente sostenere attacchi espliciti al proprio stile di vita e alle proprie scelte. A darle forza erano i ritagli di tempo in cornice appesi alla parete alle spalle di Clara: tutte testimonianze di quanto la vita che aveva scelto l’avesse resa felice in un modo che la sorella non avrebbe neanche mai potuto immaginare. Senza quelle fotografie, il veleno di Clara le avrebbe fatto mettere in dubbio la bontà di qualsiasi propria decisione.

«Vorrei soltanto che la tenuta in Toscana non facesse la stessa fine di tutte le opportunità che la nostra famiglia ti ha offerto nella vita. Finirebbe col rimanere inutilizzata per sempre.»

«Non intendo venderla, te lo avevo già detto al telefono.»

«Margherita, sono venuta fin qui, in questo posto sperduto e dimenticato dall’umanità per cercare di farti ragionare e non intendo andarmene senza esserci riuscita.»

«Mi dispiace, cara sorella, ma temo che dovrai scontrarti col primo fallimento della tua vita.»

«Potresti ricavare una fortuna dalla vendita, pensa a Harry, potrebbe permettersi di andare nelle migliori università del mondo.»

«Mio figlio potrà fare quello che vorrà nella propria vita, indipendentemente dal denaro.»

«Pensi che con i tuoi lavoretti in legno riuscirai a sostenere le sue ambizioni? Che razza di madre negherebbe tutto quel denaro al proprio figlio?»

A quel punto Ginevra si alzò facendo stridere i piedi della sedia sul pavimento in legno. I segni dei graffi sulle assi sarebbero rimasti per sempre, a suggellare quel momento.

«Una madre sicuramente migliore di te.»

Quella notte scese una nube di rancore sul cottage di Margherita. Per la prima volta quel luogo emanò ostilità, freddezza, e nessuno sotto quel tetto riuscì a dormire. L’asfissiante tensione tra le due sorelle, la logorante discussione avuta a cena e … i ricordi avevano reso invivibile perfino quella porzione di mondo. 

All’alba Ginevra scese al piano di sotto, per fare una passeggiata nel silenzio. Trovò Margherita in cucina con una tazza di tè fumante tra le mani.

«Metti le scarpe, ti porto sulle scogliere di Moher.»

Scogliere di Moher. Immagine presa dal web.

Zia e nipote passeggiarono libere. La prima aveva cicatrici dove la seconda aveva ferite vive. 

«Quando sono arrivata a Doolin avevo qualche soldo da parte. Avevo lavorato per qualche mese come apprendista nell’azienda di un amico di tuo nonno Pietro, ma mi sentivo soffocare. Non avevo idea di cosa avrei fatto, ma sapevo che non potevo continuare a soddisfare gli altri. Dovevo pensare a me stessa. Tua madre…» sorrise con amarezza. «…. tua madre è sempre stata una scheggia inarrestabile. Eccellente in tutte le cose che il mondo ritiene rilevanti. Avrei tanto voluto che capisse che dovevo trovare una strada tutta mia, pur rimanendole accanto, invece mi ha sempre allontanata.»

L’aria salmastra depositava strati di sale sui capelli al vento di zia e nipote, mentre entrambe cercavano conforto nella pace che le circondava. Giunsero infine a ridosso delle altissime scogliere e il paesaggio mozzafiato ridimensionò ogni cosa. Di fronte alla distesa oceanica e al profilo roccioso che colava a picco su di essa tutti i malumori, i rimpianti, le paure e la rabbia sembrarono granelli di sabbia. Irrilevanti. 

E respirarono.

«Lo strumento che suona mia sorella genera il suono grazie all’aria che lo attraversa. A volte penso che non “risuonerò” di fronte a nulla finché mamma e papà mi toglieranno l’aria. Capisci cosa intendo?»

Margherita annuì, osservando la nipote e riconoscendosi nel suo desiderio di affermare una propria personalità, di vivere semplicemente, senza porsi troppe domande sul proprio scopo ultimo su questa terra.

«Sai che la zia che mi ha lasciato metà della tenuta suonava l’Organo?»

«Non ne avevo idea. É ereditario, quindi.»

Margherita scoppiò a ridere. 

«Una volta, vedendomi demoralizzata perché, al contrario di mia sorella, non sapevo quale strada percorrere, mi disse queste parole. “Ognuno suona con il proprio organo. Il corpo umano è pieno di organi, basta trovare quello giusto e risuonare. Trova il tuo organo, bambina mia, e componi la tua musica.”»

«E lo hai trovato, zia?»

«Sì, è il cuore. Guida sempre le mie mani mentre intaglio il legno.»

Ginevra si sedette, ascoltando le onde infrangersi metri e metri più giù. 

«Il mio, credo sia lo stomaco. Voglio diventare uno Chef.»

*

Sono passati 25 anni da quel giorno e Margherita non ha mai accettato di vendere la tenuta in Toscana. Oggi é un agriturismo, gestito da Harry. Nel forno a legna delle cucine Ginevra prepara da anni le migliori pizze di sempre.

Alessia Castellini

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2 Risposte a “L’organo”

    1. Ciao Rebecca <3 Che bello, sei passata dal blog senza che io inviassi la newsletter *.* Sono proprio felice! Non riesco ad essere costante nella pubblicazione di contenuti sul blog, ma spero di trovare un ritmo prima o poi.
      Grazie per aver letto e apprezzato questo nuovo racconto. Credo sia importantissimo seguire la propria indole, senza lasciarsi influenzare e ossessionare da nessuno <3
      Spero tu stia bene, scusa il ritardo nella risposta. Un abbraccio.

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